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la correttezza dell’artista, che diceva di spendere i suoi denari senza contarli.
Una mattina, mentr’ella stava per andarsene, entrò un uomo alto e rosso, col largo viso circondato da una barbaccia fulva. Non era uno dei tanti pittori che frequentavano lo studio e che l’artista dipingeva a Lia come altrettanti mostri d’invidia e di perfidia: si fermò in un angolo e cominciò a guardar Lia e poi la figura e poi di nuovo Lia, con gli occhi celesti ridenti, poi andò davanti alla tela, fino a toccarla con la barba, e parve fiutarla. Di nuovo s’allontanò, con le mani intrecciate sulla schiena, e disse con voce ringhiosa:
— Molto bene!
Il giovine pittore era diventato pallido e s’aggirava attorno all’uomo come un cagnolino timido e lieto.
Lia andò a spogliarsi dietro il paravento. Di solito ella sentiva gli artisti lodarsi fra di loro, e tutti trovavano quasi perfetto il quadro con la sua figura, tanto ch’ella s’era convinta di non capir nulla in fatto d’arte: questa volta, però, dopo il «molto bene» l’uomo rosso trovava difetti di disegno, di colore, di prospettiva: piano piano pareva si divertisse a raschiare il quadro. Mancava l’aria, il colore locale, la verità! La figura, poi, doveva essere meno rigida: molle, indolente, accoccolata al suolo, come snervata dal soffio ardente del deserto.