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cielo e l’argento delle nuvole immobili al di sopra delle casette silenziose e dei cortili pittoreschi. Una pace di piccola città regnava nella strada deserta; operai taciturni, vestiti con lunghi camiciotti giallastri, lavoravano nell’interno delle strette officine, tra frantumi di marmo, mucchi di gesso e di creta; un gatto passava lungo i muri umidi e dai cortili usciva un odore d’erba e di terra bagnata.
Lia entrò in un vecchio portone in fondo alla strada, attraversò un androne rischiarato da un lontano sfondo di verde e d’azzurro e provò un senso di diffidenza. Il luogo era strano; a destra dell’andito, entro una specie di grotta illuminata da una fiamma rossa, una figura nera e possente d’uomo nerboruto sollevava con ambe le mani un martello infocato e lo batteva su una incudine scintillante; una scaletta nera conduceva a un giardino pensile circondato di porte, di scalinate, di terrazze, e dai cui alberi cadeva qualche goccia argentea. Lia battè ad una vetrata internamente coperta da una tenda gialla e il pittore in persona aprì.
Come sempre, ella pensò al suo Salvador, tanto il piccolo artista, col suo camiciotto scuro, la sua personcina esile, i capelli chiari rialzati sulla fronte e il riso pallido illuminato dai grandi occhi castagni rassomigliava al fanciullo.
— Buon giorno, — ella disse con semplicità, ed egli rispose: