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non andò a letto. Non aveva certamente sonno: i pensieri si incalzavano nella sua mente come le nuvolette bianche sul cielo chiaro di quella notte primaverile. Cautamente chiuse l’uscio che comunicava con la camera della zia, smoccolò il lume d’ottone che dondolava come un’arancia, e si mise a scrivere. Intorno a lei si stese un cerchio d’ombra; e di tanto in tanto la camera bianca e nuda, arredata solo del lettuccio di legno, di un armadio nero e di un tavolinetto, pareva riempirsi di un lamento misterioso, talvolta flebile, talvolta ironico, sempre triste: era il canto del cuculo che penetrava attraverso la finestruola socchiusa.
Lia scriveva.
- «Caro zio,
«Ho qui davanti La vostra letterina e non mi stanco di leggerla e di rileggerla. Non so dirvi l’impressione che provo, mi pare di sognare, e sono così felice che ho paura di svegliarmi. Caro zio, vi prego di non sorridere di me e di non credermi tanto semplice o tanto ambiziosa come sembro; l’idea di venire a Roma e di conoscere un parente come voi mi riempie di gioia, non perchè io aneli alla vita della grande città, ma perchè mi dà la fervida speranza di cominciare una nuova vita e di rendermi finalmente utile a me stessa ed agli altri.
«Voi non mi conoscete ancora; quando mi co-