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candida come una colomba e sorrise ai bimbi che la fissavano con curiosità. Lia porse il biglietto, ma dovette egualmente aspettare a lungo, nel salottino dalle pareti smaltate e dai sedili di vimini. Si udiva nell’ambulatorio attiguo un sommesso chiacchierio di donne povere e il pianto d’un bimbo malato: e mentre Lia si confortava pensando che esistevano miserie più grandi della sua, Salvador leggeva i diplomi d’onore dell’Ospedalino, attaccati come quadri alle pareti. A un tratto diede un grido di sorpresa:

— Mamma, qui c’è scritto il nome della signora Bianchi, leggi!

Ella s’alzò, ma prima di leggere i nomi dei benefattori dell’Ospedalino, sentì il dottore entrare a passi lievi e ricordò allora di aver altre volte veduto quel viso calmo quasi immobile, quella testa marmorea dai folti capelli bianchi scarmigliati, alquanto rigettata all’indietro: gli occhi sporgenti e velati, con le palpebre grevi, fissavano un punto lontano. Sembrava distratto; ma quando Lia gli ricordò che s’erano già conosciuti dalla pia signora, e gli spiegò il perchè della sua visita, curvò la testò, leonina; ed i suoi occhi si fecero luminosi e attenti. Mise Salvador accanto alla finestra, gli esaminò la gola, gli palpò la nuca, gli diede un colpettino sulla testa.

— Andiamo a scuola?

— Sono già in terza! — esclamò Salvador, ridendo dell’ingenua domanda.