Pagina:Deledda - Nel deserto, Milano, 1911.djvu/137


— 131 —


Talvolta la pareva di sentir ancora il grido dell’assiuolo e di veder lo specchio delle paludi. Nulla era cambiato nell’animo suo: le pareva d’essere ancora la fanciulla melanconica che all’ombra del palmizio sognava il mondo bello e grandioso. Dov’era questo mondo? Ella era partita una mattina di primavera, in cerca della vita: e la vita l’aveva irrisa, gettandole appena qualche briciola per saziare la sua fame, e l’aveva percossa e buttata a terra. Eppure ella conservava, in fondo al suo cuore, un senso d’attesa e di speranza. Gira o rigira si trovava allo stesso punto dond’era partita: sola in mezzo ad una solitudine desolata; ma l’orizzonte non era chiuso, e al di là qualcosa doveva pur esistere: qualcosa d’ignoto e di grande, ch’ella non conosceva e neppure indovinava, ma verso cui anelava con tutte le forze represse della sua anima, come il cieco alla luce.

Cammina, cammina, dunque, voleva andar oltre, non tornar indietro, e sebbene la pace morta della landa la richiamasse, resisteva all’invito, e andava avanti.

— Sai cosa dobbiamo fare? — disse a un tratto Salvador. — Andiamo ancora a star là. Tanto adesso papà è morto. Là almeno c’è da correre, eppoi ci fanno tanti regali.

— Ah no, — disse subito Lia. — Là non ci sono scuole. E voi dovete studiare, carini miei, e abituarvi a lavorare, a vivere fra la gente.