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in qualche salotto, o in qualche banchetto rumoroso di artisti e di letterati, ma non si eccitava, nè si divertiva molto. Ella aveva vissuto troppo a lungo con sè stessa per non dominare le sue fantasticherie, e aveva, come tutti i solitari, una visione della vita che andava al di là, al disopra delle apparenze. Justo le diceva che ella doveva scendere da una razza di eremiti; ella infatti vedeva il mondo come dalla cima d’una montagna; ma si spaventava alla sola idea di scendere, di mescolarsi alla folla, e il suo antico sogno di una vita attiva e proficua le appariva sempre più inafferrabile. La sua vita non mutava. Ricordando l’ebbrezza dopo il suo primo colloquio con Justo a Villa Borghese, ne provava quasi vergogna. Che aveva fatto, dopo? Nulla; si lasciava cullare dalla vita; e se Justo e Salvador erano felici, lo dovevano più alla indolenza che alla volontà di lei.
Un giorno le arrivò una lettera della zia Gaina: era la terza, dopo la sua partenza dall’isola; nella prima la donna si meravigliava della resistenza di sua nipote a vivere presso lo zio Asquer; nella seconda dichiarava di non esser contenta del fidanzamento di Lia, che ella avrebbe preferito veder sposa ad un impiegato governativo; adesso le chiedeva come passava la vita, se suo marito guadagnava abbastanza, se aveva bisogno di qualche cosa.
«Se hai bisogno, dimmelo: per il poco che pos-