Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 4 — |
Come usava tutti i giorni a quell’ora, Lia Asquer uscì dalla casetta e andò a sedersi sotto il palmizio, sul sedile formato da un’asse corrosa appoggiata a due ceppi. La sua figura alta e magra, dalla fine testa araba, era all’unisono col paesaggio; anche i suoi capelli nerissimi, divisi sulla fronte come due ale di corvo, avevano riflessi metallici; e col suo viso ovale e scuro ove brillava il bianco dei grandi occhi neri pieni di sogni e di diffidenza e il candore dei denti alquanto sporgenti, ella sembrava una figlia di beduini nata sotto una palma.
Per quasi mezz’ora stette immobile, con le braccia incrociate, le mani sotto le ascelle, gli occhi fissi sulla linea del mare solitario: il grembiulino d’indiana le pendeva da un lato, sul sedile, la modesta gonna nera lasciava vedere i piedi sottili e arcuati nonostante le rozze scarpette a lacci.
Un lamento di fisarmonica attraversò all’improvviso il silenzio della brughiera, come un canto d’uccello, e Lia si scosse: lagrime di desiderio e di tristezza le brillarono negli occhi, e come la sera prima, come un anno prima, come da tanti anni, ella provò un senso di desolazione e le parve di essere in mezzo a un deserto, sola.
Ma a un tratto una donna in costume, alta, scarna, col viso jeratico circondato da una benda nera, uscì dalla casetta e s’avvicinò alla fanciulla.