quindici o sedici o diciotto anni, non so bene, ero serva in casa di Cristina Zandu. Erano ricchi, i miei padroni: ricco è questo padrone qui, Dio lo consoli, ma ricchi erano anche quelli: avevano persino la fontana d’acqua dolce in casa; e denari e argenteria e reliquie come in una chiesa: persino nell’entrata della casa, in una cassa, c’era danaro; le monete, di rame, in un canestro come le fave. Ora io non ti so dire bene com’è accaduto; ma una sera ecco, una sera di festa, il padrone tornò a casa, col suo bastone, e si mise a letto senza cenare; forse aveva bevuto: in coscienza mia non lo posso affermare, ma forse aveva bevuto. Noi donne stavamo in cucina; il servo dava da mangiare ai cavalli quando ecco lo vedemmo entrare con gli occhi grandi spaventati gridando: «Madre mia, padrona mia, che paura! Che paura!» e subito fuggì su per una scaletta a piuoli che dava in un soppalco sopra la cucina: e io dietro di lui, coi capelli dritti per il terrore, sebbene non sapessi di che si trattava. Ed egli fu svelto a tirar su la scaletta,