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— VI — |
ancor più a Milano si dimenticò della religione, quando in casa del conte Porro Lambertenghi e nella redazione del «Conciliatore»00 le battaglie della letteratura rinnovantesi e la passione per la patria destarono nella sua vita il ritmo più intenso.
Ma gettato nel carcere ricercò in quella tetra solitudine la vera ragione di vivere e la ritrovò nel suo stesso dolore, nella sua rassegnazione, nella speranza di una giustizia che non fallisce: allora si riavvicinò a quell’unico che non lo aveva mai abbandonato: a Dio.
La conversione fu del tutto umana e giustificabile: e per il resto della vita, specialmente quando, perduta l’ultima vigoria virile, fu vinto dai dolori del corpo macerato dai lunghi anni del carcere, l’unica sua pace fu negli studi religiosi e nella preghiera.
Questo suo abbandono a una volontà superiore, la bontà coltivata e voluta da lui come il maggiore dei beni, il poco amore alle cose esteriori della vita e il continuo guardare di là dall’orizzonte mortale con la ferma speranza che solo di là debba cominciare il regno della giustizia e della gioia, hanno, più che altro, fatto di lui lo scrittore preferito della mia prima fanciullezza, e credo abbiano anche influito a formare qualche piega del mio carattere morale, del che non sempre ho avuto