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III

ci sono balzati dinanzi agli occhi, non ancora acuti, i caratteri, i personaggi, i luoghi delle orrende prigioni: ora invece siamo portati a seguire tutto lo svolgimento temporale e qualitativo dell’animo di Silvio Pellico; ora solleviamo un istante il viso pensieroso dal libro dopo aver letto della sua conversione religiosa; scorgiamo delle tinte veriste quando il carceriere gli dice che senza bere vino la solitudine gli sarà più amara; e finalmente sappiamo per intero comprendere la clemenza e la benignità del prigioniero verso i suoi carnefici, mentre prima, poichè l’amore cieco è esigente e ingiusto, forse lo accusavamo di debolezza e anche di paura.

Oramai però lo abbiamo letto poeta tragico ed epico, e conosciamo i precetti morali dei suoi Doveri degli uomini; e spingendo lo sguardo curioso e pronto alla critica nelle sue lettere e nei suoi pensieri più intimi, possiamo dire di conoscerlo come un amico. Più sicuri nel giudicarlo, esso può quindi destare una maggiore ammirazione sebbene forse meno amore che nei primi anni.

Eppure quest’uomo, pur così gracile di corpo, così ossequiente ai suoi genitori che in età matura gli proibivano di unirsi con la Gegia, così perplesso a volte nelle sue decisioni, e amante della pace domestica, ha sopportato con eroica fermezza dieci lunghi anni di tortura in quel carcere inumano che aveva fiaccato le fibre più vigorose; ed