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gio, lì dentro, triste e offesa, più che dalla malattia del vecchio, dall’ombra della casa.

Egli la conosceva bene, la sua Vittoria, mistica e sensuale, misteriosa come tutte le donne: la conosceva, ma attraverso il corpo di lei che egli adorava, l’anima gli appariva a volte oscura come velatasi per sfuggirgli di nascosto senza osare di farlo perchè lui vigilava.

Ed egli vigilava e credeva di non illudersi. Guardandosi nel piccolo specchio incrinato, mentre si asciugava la testa e il collo, disse alla sua figura, schernendola un poco:

— Siamo brutti, Andrea Zanche!

No, non s’illudeva. Vittoria non lo amava, non lo conosceva; ma poteva amarlo, poteva conoscerlo; era intelligente, capiva la vita; bastava che egli la guidasse e guidando lei andasse anche lui per la via dritta, forte sotto il suo carico, obbediente agli ordini superiori.

La vita è una marcia fatale, una disciplina inesorabile: adesso lo capiva, come se quei sette mesi di servizio militare glielo avessero insegnato più che i lunghi anni di scuola e di esperienza propria: non si sa dove si va, ma si vede la strada dritta davanti a noi. Bisogna percorrerla da forti. Si arriva, si ottiene il premio, si ottiene il comando.

D’improvviso però, come vinto a un tratto dalla stanchezza del viaggio, si abbandonò sul davanzale della finestruola, guardando la panchina ove suo padre aveva sorpreso gli adulteri. Ricordi confusi gli passavano in mente, turbando i suoi propositi eroici. Si rivedeva