Pagina:Deledda - Le colpe altrui.djvu/340


— 332 —


— Sei tu la padrona — ripetè, senza saper bene quello che voleva dire; e sporse in avanti la testa e allargò le braccia come rimettendosi alla volontà di lei.

Vittoria provò di nuovo un oscuro senso di incertezza. Dov’era la salvezza? E se Mikali aveva ragione? Se era là nel mondo tenebroso dov’egli voleva andare, meglio che qui nello stazzo fra le ombre del passato? L’idea di seguirlo le attraversò per un attimo la mente come il bagliore dei treni notturni illuminava laggiù la solitudine nera descritta da lui. Un attimo solo, poi non ci pensò più: e le parole di Mikali «tu sei la padrona» parvero darle un senso di forza, di responsabilità. Lo prese per mano come un bambino e lo condusse nel corridoio.

Sedettero sulla panca davanti alla nicchia di Sant’Isidoro ed egli si tolse la berretta e se la mise sul ginocchio. Altre volte aveva deriso il feticismo delle donne dello stazzo per il piccolo santo e non aveva mai esitato a baciare Vittoria sotto gli occhi lucenti della statuetta. Adesso non poteva più: si sentiva paralizzato; la sua mano stretta da quella di sua moglie rimaneva inerte come quella di un vecchio.

— Mikali, — ella gli mormorava sul collo, appassionata e materna, — ecco chi mi ha aperto il cuore; il nostro piccolo santo... È lui che non vuole che tu vada via; lui che ha veduto tuo padre soffrire invano per la sua superbia... Mikali... tu hai ragione; sono io la padrona, tu sei mio, tutto mio, e ti tengo e