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sua terra. Lo scheletro d’un cavallo attraversava il sentiero, e all’osso d’una zampa stava ancora attaccato un ferro arrugginito.
— Lo hanno spolpato le aquile — egli disse. — Si rassomiglia a me!
— Tu non hai più neanche un ferro, Predu Zanche! Persino quelli hai perduto!
— Non importa. C’è il bastimento che trotta per me!
E continuarono. Mikali derideva il cugino, ma pensava sempre al giorno in cui sarebbe andato a raggiungerlo, e raccontava storie di santi e dell’imperatore Costantino come i mendicanti seduti all’ombra delle chiese campestri. Così arrivarono al porto. Gli emigranti aspettavano l’ora della partenza, coi sacchi, i bastoni, gli involti, come pellegrini vestiti di frustagno ma col viso ancora segnato da linee di fierezza, a momenti oscuro di diffidenza, a momenti illuminato di speranza. Alcuni però, già stati in America, vi ritornavano; e il loro viso era coperto di una maschera ambigua, gli occhi sapevano; i vestiti di velluto verde a righe ricordavano le praterie di laggiù, le foreste senza poesia, ove l’uomo primitivo cessa di esser tale per diventare il barbaro moderno.
Predu fu l’ultimo a salire sul piroscafo. Mandò un grido per salutare Mikali, e Mikali rispose con un grido: poi vide la figura del cugino confondersi con la massa terrea degli altri emigranti, e il piroscafo sparire come sommerso dal mare.
Era la vecchia Sardegna che se ne andava.
Deledda. Le colpe altrui. | 21 |