Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 317 — |
XII.
Mikali aspettava il frate, seduto sul paracarri dello stradone. La sera cadeva tiepida e calma come un crepuscolo d’estate; la luna nuova tramontava verdognola sull’orizzonte chiaro, e da un punto lontano arrivava un suono di fisarmonica come nelle sere di festa.
Egli batteva il tacco delle sue scarpe sulla pietra del paracarri e pensava alla notte in cui aveva costretto il ragazzo zoppo a suonare e cantare sotto la finestra di Vittoria. Ma i ricordi non lo intenerivano più; lo irritavano piuttosto, di una lieve irritazione che svaniva presto per dar luogo a un senso di vuoto e di stanchezza. Come il frate tardava ed egli era stanco, si buttò lungo disteso sul paracarri col braccio sotto la testa, un piede sull’altro; la luna gli batteva sul viso; ed era invecchiato, quel viso, dimagrito, con le guancie coperte dall’ombra della barba non rasa da più giorni: senza i capelli lunghi e trascurati che gli spiovevano di qua e di là delle tempie, avrebbe ricordato quello di Andrea nei suoi ultimi giorni. Perchè egli non curava più la sua persona: come poteva farlo, con quella smania di errare, di qua e di là, dall’ovile al predio, da Monte Nieddu al mare, appunto come perseguitato dall’ombra del fratello?
La stanchezza gli chiuse gli occhi; e nel dor-