Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 172 — |
coda; e si alzò pesantemente sulle ginocchia, ma come abbattuto dall’urto della mano di Mikali cadde sull’erba con la testa piegata sul collo e le vertebre agitate da un tremito.
A poco a poco il tremito cessò, come un lento ondulare d’acqua; l’occhio spaurito rifletteva la luna e Mikali stava curvo a guardarlo come sull’orlo di uno stagno di morte.
Quando la forma nera tornò immobile fra l’erba che odorava inumidita dal sangue, egli pulì il coltello con una foglia e se ne andò. Sentiva un po’ di sollievo; ma non era contento. E come il suono della chitarra arrivava adesso dalla parte dell’orto di Vittoria, si diresse laggiù, e raggiunse il suonatore, un ragazzo gallurese figlio del cantoniere.
— Adesso ti farò cantare, — gli disse conducendolo sotto il muro dell’orto: — andiamo più in là, sotto la finestra di Ignazia.
Sull’orto nero e giallo d’ombra e di luna vagava l’odore delle mele di San Giovanni; il vetro verdognolo della finestruola di Ignazia brillava triste come l’occhio del puledro morto.
Mikali fissava la grande casa silenziosa che chiudeva Vittoria come una tomba e le dava la dura freddezza di un cadavere; e sentiva una smania violenta di arrampicarsi con le unghie sui muri, di penetrare per le fessure e devastare tutto là dentro e portarsi via come un tesoro rubato la donna che non voleva essere sua.
Ma la voce del ragazzo s’alzò nel silenzio fresca, liquida come uno stelo d’acqua cristal-