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sua cameretta; ma invece di coricarsi s’inginocchiò davanti alla finestruola aperta e offrì al Signore la sua pena per la collera, la passione, i feroci propositi di Mikali. Ella accettava tutto; era il suo giusto castigo che continuava; e del resto, guardando le stelle coi poveri occhi malati dal lungo piangere, le pareva di vedere tutto l’universo scintillante di lagrime. Siamo nati per soffrire e piangere; che cercare oltre? Anche Mikali, col tempo avrebbe capito questa verità e si sarebbe rassegnato.
Egli intanto non si rassegnava; lunghi sospiri gli gonfiavano il petto, come fosse legato sul carro e da un momento all’altro si dovesse su questo trasportarlo a un luogo di condanna; solo quando sentì le donne rientrare balzò infastidito e se ne andò a vagare nella notte. La notte era bella; la luna al suo ultimo quarto posava sul confine della brughiera come una coppa d’oro colma di fiori di stelle; e un trillo di chitarra, dietro lo stazzo Zanche, faceva tacere i grilli e persino l’usignolo.
Egli sentiva nelle vene qualcosa simile a quel trillo: un’aspra vibrazione di desiderio, di pianto, di amore e d’odio.
Si diresse laggiù, ma a misura ch’egli lo cercava, il suono s’allontanava, come il grido del cuculo; e così, saltando le muriccie di confine fra un terreno e l’altro, si trovò nella tanca del dottore e vide una forma nera immobile sull’erba come una roccia.
— Santu Juanne meu, mi mandate incontro il demonio!