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la Corte celeste, egli rientrò e si buttò sbuffando sul carro davanti alla porta. Sullo scalino sedeva sua madre, avvolta dalla triplice ombra del suo dolore, della sua gonna nera e della notte.

Per un pezzo non parlarono; ella finiva di recitare le sue preghiere, e finalmente disse piano:

— Mikali, che hai? Non mangi?

Egli sbuffò più forte.

— Mikali!

— Vorrei mangiarmi il cuore, madre! E l’ho grosso, m’uccidano! Grosso come un macigno. Ebbene, sapete la nuova? Dicono che quella donna sposa il dottore. Ma io... ma io... io non sono Andrea! Io non voglio morire, no; ne farò morire io, arrabbiati come cani, vedrete...

— Mikali, abbassa la voce e non bestemmiare in questa santa notte.

— Che bestemmie ho detto?

— Ogni parola che pronunci è una bestemmia: non nominare il piccolo infelice, lascialo nella sua pace. E tu, senti, pensa ai casi tuoi, Mikà, figlio d’oro.

— Ci penso, sì, ma troppo tardi, madre! Dovevate pensarci anche voi, ai casi miei, appena son nato. Invece mi avete fatto scontare la vostra colpa, mi avete fatto crescere senza padre, senza nome: madre, madre, perchè, almeno, non avete avuto la forza di farmi riconoscere dal mio vero padre? Da Bakis Zanche? — aggiunse tosto, poichè non ammetteva di essere figlio dell’altro.

Ella taceva. Anche lei era convinta ch’egli