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abitanti fossero partiti; e le cornacchie e il falco sulla legnaja guardavano spauriti, quasi consapevoli anch’essi della sventura.
Frate Zironi sedette silenzioso accanto al lettuccio, al cui dappiedi stava appoggiata Vittoria. Il malato non parlava; pareva avesse avuto il colera, tanto s’era vuotato, con la pelle grinzosa violacea aderente alle ossa e le vene verdognole grosse qua e là come nodi: anche Vittoria era pallida, con gli occhi cerchiati e la bocca contratta dal dolore; eppure egli la guardava disperato, come l’immagine stessa della vita che gli sfuggiva, e quando ella accennò ad uscire per lasciarlo solo col frate, la richiamò con un gesto convulso, quasi avesse paura che andata via lei entrasse la morte. Poi si calmò; le permise di andarsene e disse sottovoce:
— Tre giorni m’aveva chiesto, e non venne a prendere la risposta, tanto sapeva che era una e immutabile. Così egli se ne andò, e adesso vado io; ma se ci ritroveremo ci spiegheremo alla presenza di Dio: ed Egli soltanto, l’Altissimo, dirà chi di noi aveva ragione. Va, va in buon’ora, va!
Con la mano accennava il buon viaggio a qualcuno: a chi? ad Andrea o a sè medesimo? E non ascoltava il sermone del frate, sulla caducità delle cose umane; con gli occhi vitrei fissi in un punto lontano invisibile ad altri, di tanto in tanto gemeva: d’improvviso però si scosse, passandosi più volte una mano davanti al viso come per scacciarne delle mosche.
— Vi ho chiamato per domandarvi un favore