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ogni tanto si curvava per intingere il suo grosso pennello nella ciotola; qualche goccia di tinta cadeva sul pavimento come sangue; un moscone ronzava nel silenzio della chiesetta.

Quelle goccie rosse! E il moscone ronzava più forte. Si svegliò ansando e al chiarore della luna vide Andrea che s’era alzato con la coperta sulle spalle.

— Andrea, che fai? Mi alzo?

— Vado a dormire nell’ingresso. Voi russate troppo. Non vi movete.

Ed egli non si mosse, ma non potè riaddormentarsi: aveva la bocca acida, il cuore gonfio; gli sembrò che Andrea se ne andasse a dormire nel bosco, fra l’erba umida di rugiada, e ne provò rimorso. Finalmente non potè resistere oltre all’inquietudine e si alzò, guardando furtivo: Andrea non c’era. Chiamarlo? poteva offendersi e fuggire. E non chiamò, ma attraversò l’orto, andò nel bosco, cominciò a cercarlo di qua e di là, nell’ombra, negli angoli bianchi di luna, nella radura grigia. Quanti Andrea gli sembrava di vedere, sotto ogni cespuglio, in ogni pietra! Tutti i disperati del mondo erano saliti lassù in cerca di pace, e giacevano vinti riempiendo di dolore la dolce notte della montagna. Ed egli girava, girava, come in un campo di morti dopo una battaglia, e mille ricordi salivano dalle ombre del bosco, dalla profondità del suo cuore. Il passato, la prima notte nel convento, il dolore ch’egli aveva ucciso nella solitudine, balzavano su e lo riafferravano alla gola.