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in là, ceruli come nuvole rasenti all’onda, Capo Ceraso e Capo Figari.

Egli ebbe terrore di questo spazio: si vide smarrito per le vie del mondo, a camminare e camminare cercando di calpestare, di macerare sotto i suoi piedi il suo dolore, mentre questo gli stava sempre più dentro e si nutriva di lui, insaziabile e schifoso come il verme solitario.

Riprese a camminare. Ed ecco da un promontorio apparire la maremma con le paludi scintillanti come frantumi di specchi; e gli stazzi biancheggiare tra il verde della brughiera. Di laggiù salivano le voci dei ricordi; ed egli sentì che queste voci appunto lo avevano attirato fino al promontorio e tornò indietro sui suoi passi, come ricercando la via perduta. Ma più camminava più si smarriva; rientrò nell’orticello, rientrò nel cortile, si buttò fra l’erba che cominciava a seccarsi all’ombra del muro rovinato. Il luogo era adatto per lui; rassomigliava alla sua anima. Tutt’intorno pareva regnasse una notte luminosa, tanto grande era il silenzio e grave il sonno delle cose. Immobile sotto il muro dal quale continuavano a cadere sassolini e polvere, egli guardava le nuvole dissolversi sull’azzurro del cielo. Tutto così era dissoluzione, entro e fuori di lui, in quel giorno che sembrava notte. E nulla, nè la pietra nè la nuvola, nè l’erba nè la polvere, nulla si lamentava. Allora anche lui decise di chiudersi nel silenzio come una cosa.