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padre aveva paura, — proseguì il vecchio, sospirando, non si sa se per compassione dei maggiori, o di sé stesso che rimaneva aggiogato alla loro tradizione, — paura che gli scavi gli portassero disgrazia. Diceva: «Sì, finché si può vivere senza chiedere l’elemosina, finché si può lavorare, è meglio non cercare la ricchezza. È la ricchezza che porta sventura». Che vuole, signor ingegnere? Saranno idee antiche, ma noi le abbiamo. La gente può ridersene, ma a noi non importa nulla della gente: ci importa di vivere tranquilli. Mio figlio, però, non la pensava così. Mio figlio aveva studiato: era maestro di scuola: non gli bastava quel posto, e volle tentare la sorte. Ma appena iniziò l’opera, un male triste lo colse, lo fece morire, giovine ancóra, nel pieno delle sue forze. Questa è storia vera.
— Ebbene, e non è una ragione di più per disfarvi della miniera?
— Ed io lo farei, sì, ma, vede, ho paura. E con me le donne, sebbene non lo dimostrino. È una cosa più forte di noi. Abbiamo paura che il denaro ci porti sfortuna. Mia nipote avrà fatto la brava, con lei, ma, creda a me, ha più paura di tutti. Queste cose le dico a lei, perché mi sembra un galantuomo: magari riderà anche lei; ma questa è la storia.
L’ingegnere non rideva, no: col viso piegato sulla carta asciugante, pareva intento davvero