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alzarsi e ripartire. Dovette però accettare il caffè che la vedova Gilsi portò bruscamente in tavola, ritirandosi subito dopo senza pronunziare parola. Anche il caffè era ottimo e finì col dare un lieve senso di ebbrezza all’ingegnere.

La ragazza continuava a parlare: cose semplici, ella diceva, raccontando la vita povera del paesetto, la vita sua più povera ancóra: solo si animava riaccennando alla casa della miniera.

— Sarà perché ci abbiamo passato giorni felici, pieni di grandi illusioni, quando era vivo il babbo. Si stava tutti là, assieme, uniti in uno stesso sogno: io e la mamma si lavorava, come adesso, come sempre, ma con altra fede, con altra forza. Volevamo che il babbo riuscisse nel suo intento, e lo circondavamo di ogni cura, di tutto il nostro affetto. Ed egli tentava ogni sforzo per noi, per me specialmente. Mi diceva: «Sarai ricca». A me, questo non importava; anzi, l’idea di cambiar vita, di lasciare la casa e la miniera, mi dispiaceva. La felicità era quella, di sperare, di lavorare gli uni per gli altri, di volersi bene, lontani dal mondo, intorno al nostro tesoro nascosto: poi tutto cambiò.

Ed ecco che anche lei aveva cambiato viso: un solco di dolore le scavava gli angoli della bocca, e la voce si assottigliava in un tremolìo di pianto. L’uomo pensava: — Ma perché le rac-