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per questo, forse, non ne aveva saputo trarre fortuna.
Intanto si avanzava sullo spiazzo, invaso ancora da mucchi di scarico, con segni di passaggio umano: scatole di latta arrugginite, un manico di piccone, fogli di carta gialla unta: questi erano recenti, e si rotolavano al vento con impertinenza, come cose povere, ma vive, leggere di libertà. Allora l’ingegnere pensò alla vedova e alla figlia del proprietario morto, e fissando la porta della casa gli parve di vederle affacciarsi, nera e triste la prima, pallida di solitudine la fanciulla, con gli occhi scuri e luminosi come il colore del luogo.
Ma la porta era chiusa; chiuse le finestre del piano di sopra; aperte, ma arcigne di inferriate, quelle del piano terreno, attraverso le quali si vedevano due stanze grigie, con scrittoi e panche, simili a certi stambugi di uffici cittadini dove passa una folla di postulanti.
Anima viva non appariva; qualcuno però ci doveva essere, almeno un cane, poiché il suo abbaiare fosco rintronava intorno, e l’eco ne moltiplicava il rimbombo: ma pareva che quell’urlo uscisse dalle viscere del monte, da una di quelle bocche di scavo che si aprivano ad arco, basse e nere come ingressi di tombe antiche.
Il cane era là dentro, a custodia del tesoro nascosto; e il suo lamento minaccioso destava un senso vago di paura.