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si fermava a parlare solo di cani, di caccia, di avventure di bosco.

Alto, infiammato, vestito sempre con un costume da caccia un po’ brigantesco, parlava con un linguaggio misto di francese, d’italiano e di dialetto: la sua voce aspra e risonante echeggiava nel silenzio della strada e faceva affrettare il passo alle donne che andavano al Molino con le grandi ceste di frumento sul capo.

I ragazzi si nascondevano o lo spiavano di lontano. Egli non faceva male a nessuno, anzi era generoso e regalava ai suoi amici, e specialmente a mio padre, bei grappoli di pernici dorate e lepri con gli occhi ancora spauriti dal senso della morte: eppure tutti lo temevano, forse per la sua figura di barbaro esotico, per la sua voce che stonava in un paese di taciturni come il nostro, e sopra tutto per le leggende che correvano sul conto suo e delle quali egli si compiaceva apertamente.

Inoltre si diceva che era ricchissimo. Infatti spendeva molto per i cavalli e i cani, mangiava nella migliore trattoria del paese e, oltre ai buoni cibi e al buon vino, gli piacevano le belle paesane ed anche le borghesi di meno facile conquista. Sempre al dire della gente, egli attirava le donne nella sua abitazione, una specie di bicocca fuori di mano, e le trattava senza complimenti: tanto che una nostra serva, bella e formosa ragazza da tutti adocchiata, si rifiutò