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di me, come quella di Dio nei fedeli che hanno fatto la comunione: per la gioia del suo arrivo, anzi, andai a nascondermi nella cisterna. Sapevo che egli veniva per parte del padre, con certe comunicazioni dell’azienda, come un corriere di affari, insomma: cosa che a me non importava: per me egli era un inviato del cielo; il principe della casacca azzurra coi bottoni di lapislazzuli; il Sogno e l’Ideale.

Fu quel giorno che la ghiandaia, che si posava ogni tanto su una quercia davanti al mio rifugio, e veniva giù famigliarmente se io le buttavo qualche mollica di pane, mi apparve come un uccello meraviglioso: le sue ali erano di platino, orlate dello stesso azzurro del cielo; e quando svolazzò giù come pattinando per la china dell’aria, per afferrare il pezzo di biscotto che io le portavo, mi sembrò che mi chiamasse per nome, invitandomi a volare con lei.

Bisognò invece rientrare per la cena. L’odore grasso delle anguille in graticola si univa a quello dello zolfo, per soffocare il profumo della sera campestre; nella saletta da pranzo il lume era insolitamente già acceso, e i ragazzi giocavano a carte. Io rimango fuori; li vedo ancora, attraverso l’inferriata della finestra, piegati ed assorti come a giocare una partita tragica. Di tanto in tanto uno si solleva, striscia la carta sulla tavola, poi scoppia in un grido belluino: ha vinto. La partita ricomincia; finché la serva