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Si andò su, di corsa, a vedere.
Nella soffitta, aperta a tutti i venti, le civette avevano fatto i loro nidi: ed in uno di questi, più leggiadro e perfetto di un panierino di giunchi, si vedevano le uova, piccole e giallognole come susine.
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Che bella vita cominciò! Con tanta sorgente in casa, bisognava però fare chilometri di strada per trovare l’acqua da bere. La ragazza ci andava volentieri, e, se occorreva, si spingeva fino al paese meno lontano, per le provviste. Per camminare meglio aveva liquidato le scarpe, verso le quali nutriva un odio personale, ed i suoi larghi piedi di creta scivolavano sul fieno secco e la polvere come nel loro elemento naturale. Quando tornava con l’anfora umida sul capo, e piano piano la reclinava poi tra le braccia per farci bere, sembrava davvero la statua di una fonte silvana. La preoccupazione dell’acqua e dei viveri, era la sola che riempiva il vuoto luminoso di quei giorni di vita beatamente animale. Si stava giorno e notte all’aperto, e solo il lontano scampanìo delle greggie, sperdute fra i ginepri e gli asfodeli, ricordava che laggiù esistevano altri esseri ed altri interessi diversi dai nostri.