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più in là se la riprese come coi denti divertendosi a tormentarla. Allora il Rinoceronte vide una cosa strana: il rondinotto volò sul fiume, sfiorò le onde, quasi volesse ripescare la carta, si sollevò impotente, tornò verso la casa; infine, col guizzo di una freccia, fuggì verso la rupe.

— Signore, — gemette l’uomo, — mi pare di sognare. — E si picchiò un dito sulla testa, per svegliarsi, ricordandosi di aver letto che gli uccellini che beccano, per nutrirsi, sulla groppa fangosa del rinoceronte, fuggono davanti a lui e così lo avvertono se un pericolo lo minaccia. Ecco perché il rondinotto fuggiva: ma il pericolo egli lo conosceva già: era lì, in quella carta che ancora naufragava nel fiume; e di che altro egli poteva temere? Eppure un senso indefinibile di angoscia lo teneva fermo sulla soglia corrosa, della quale conosceva ogni ruga e che amava come una cosa viva. Sentiva che sarebbe morto, quando gli estranei, i nemici, gli usurpatori, gli avrebbero conteso quella pietra, cacciandolo via davvero dalla sua casa come una bestia dalla tana. Lentamente, appoggiandosi al muro, scese lo scalino, attraversò la stradaccia, fino al parapetto del fiume. Là si volse, e guardò la sua casa. Ala destra, ala sinistra: in mezzo la vecchia porta ad arco, con pretese gentilizie: sopra, l’altana di legno, corrucciata e ancora piangente lagrime d’umido.

E cominciò a farle dei segni, col testone grigio,