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colti quindi gli strumenti nel sacco legato con una corda di pelo simile a quella che il compagno usava per cilizio, si caricò il prezioso peso sulle spalle e sparì fra le quercie sotto il Monte Titano.

Leo andò dalla parte opposta. Non sapeva il nome dei luoghi che attraversava né della cima alla quale voleva arrivare, ma non gliene importava. Il suo mondo oramai era tutto dentro di lui, negli abissi dei suoi peccati e sui vertici della sua fede: la bellezza dei luoghi dove saliva, la finezza cristallina dell’aria, il profumo delle rose selvatiche, esistevano solo in quanto rivelavano la divinità dello spirito che li aveva creati: e quando un’allodola zampillò dal fitto delle quercie e salì dritta cantando nell’azzurro silenzioso fino al cielo, gli parve un grido di gioia dell’anima sua che salutava il Dio delle solitudini.

*

Al tramonto viaggiava ancora: s’intravedeva da qualche radura sull’orlo delle ripide chine la valle del Marecchia tutta rossa come una conca di corallo, con le vene del fiume che brillavano simili all’oro fuso. E di fronte il monte violetto dove saliva Marino.

Il silenzio era tale che Leo credeva di sentire,