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da ogni peccato. Al contrario del compagno, egli voleva fare l’eremita, vivere in nuda solitudine, nutrendosi di erbe e di ghiande, nella contemplazione di Dio.

Erano entrambi tagliapietre, e dentro il sacco portato or dall’uno or dall’altro, tenevano gli strumenti del loro mestiere: picche, martelli, scalpelli, misti alla pietra focaia, a tozzi duri di pane d’orzo e pezzi di formaggio di capra.

Marino era provveduto anche di un mantello, mentre Leo vestiva da mendicante, con una vecchia dalmatica stretta alla cintura da una corda di giunco.

Era d’agosto ed il fiume in secca stendeva appena una trama di vene azzurre sul grande letto di sabbie rosee, fra l’ampiezza delle chine coperte di quercie dalla cui marea verdone i macigni emergevano come grandi scogli. I prati ai margini delle rive, gialli e violacei per i fiori della rughetta e del radicchio, confortavano gli occhi di Leo con la promessa di un buon nutrimento. Per l’ultima volta egli mangiò il pane ed il cacio offerti dal compagno, ma rifiutò gli strumenti di lavoro che questi gli porgeva.

— D’ora in avanti il mio scalpello sarà la preghiera, martello il cilizio e picca il digiuno. E pietra da lavorare, per il grande edificio di Cristo, l’anima mia.

— Tanto meglio per me — disse Marino, che conservava l’arguzia pratica della sua razza. Rac-