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zione. Tuttavia la nonna, con la sua solita rudezza foderata di bontà, domandò a che servivano.

— Sono scarpette da sera, se non mi sbaglio.

E la principessa fu per rispondere che le servivano per mettersele ai piedi; ma ella usava contenersi davanti ai domestici, fosse pure quest’Annarosa fedele, i cui occhi di cane la guardavano sempre con festa e con protezione, senza chiederle altro che di lasciarli solo guardare.

— Proviamole un po’ — disse, passando nello spogliatoio, che comunicava col salottino da lavoro e con la stanza da letto. Del resto, anche lo spogliatoio, con un paesaggio meraviglioso alla finestra, pareva anch’esso un salotto: tappeti, armadi lucenti, mensole, divani, specchi che si riflettevano all’infinito: e ceramiche e fiori in ogni angolo.

Annarosa s’inginocchiò davanti alla padrona, e poiché questa si era già rapidamente tolta una scarpa con la punta dell’altra, osservò con umiltà tenera ma anche austera:

— Sua eccellenza sa che a far così le scarpe si rovinano.

— Non importa — scappò detto all’altra. Che gliene importava, infatti? Aveva a sua disposizione tutte le scarpe del mondo, se le voleva. O almeno così le sembrava.

Tanto che queste qui l’annoiarono subito: erano larghe, erano dure. Annarosa gliele calzava