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— Sta bene lì, capricciosa e scervellata che altro non sei. Abbastanza hai vagabondato ieri, per orti e spiagge, a far la civetta con tutti, mentre Giollone lavorava per te. Per questo egli oggi ti ha chiusa nella stia, come un galletto pazzo. Ben ti sta, ben ti sta.
E lei, a sua volta, replicò con un gemito, che poteva anche essere di pentimento: poiché in quel nuovo muoversi del suo cuore ella si rivedeva servetta, anzi sguattera, nella cucina dei signori che in quel tempo venivano ancóra a villeggiare nel castello; e ricordava come Giollo, anche lui al loro servizio, l’avesse pescata dal lavandino, ripulendola come lei ripuliva i bei piatti di porcellana bionda.
Ma lei, a poco a poco, si era dimenticata di tutto; si era mascherata e ubbriacata come a carnevale, rendendo infelice il suo benefattore.
— Giollo, Angelo, angelo mio, perdonami....
Egli non rispondeva; non ritornava; forse non sarebbe tornato mai più. E, quasi per avvalorare questo presagio di sventura, uno splendore rosso, simile a quello che a sera annunzia il turbine per il giorno dopo, sfolgorò ad occidente, riportando sulle cose la luce del tramonto; ma una luce esasperata e demoniaca. Ella balzò, con gli occhi verdi di follìa. C’era un incendio, laggiù: si sentivano urli e richiami: un mugolare di bestie, un correre di gente. Anche l’asino riprese a ragliare: altri risposero: tutto il luogo