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del camino, poi si rimise a sedere, tranquillo. Disse:

— Chi lo sa? Spesso si sentono voci curiose. La mia nuora diceva che erano fantasmi: io, naturalmente, non ci credo: però in questo mondo non si sa mai niente. Del resto, poi, basta avere la coscienza tranquilla.


Insomma, era un luogo strano, quello. La solitudine completa, l’abbandono, la stessa mancanza di vegetazione, di uccelli, di bestie sia pure selvatiche, lo rendevano più desolato e inquietante. Quel fischio medesimo, che per fortuna non si ripeteva, era forse il lamento di un masso che si sgretolava, o davvero di qualche fantasma che attraversava a volo la notte della montagna.

E d’un tratto, mentre stava per coricarsi, anche lui vestito, sul lettuccio di una delle camere del piano superiore, — forse la camera della signorina Gilsi, — l’ingegnere ebbe per la terza volta un senso di paura, quasi di soffocamento.

A dire il vero la cameretta era triste, polverosa, con un odore di chiuso e di naftalina che destava voglia di starnutare: egli quindi aprì la finestra, e vi rimase davanti, con un grande sfolgorìo di argento e di zaffiro negli occhi. E non per romanticheria, ma per una forza interiore che d’improvviso lo sopraffaceva come un avversario abbattuto che d’un tratto si sol-