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Poi anche lui offrì da mangiare. Egli di solito passava la notte nella cucina della casa, la cui porta guardava sullo spiazzo davanti alla saracinesca: dormiva vestito, su una vecchia ottomana coperta di una coltre scura; ma la cucina era grande, col camino e una lunga tavola che pareva quella di un’osteria.

E al pane scuro casalingo, ed al formaggio pecorino che odorava di erbe aromatiche, egli unì una scatola di sardine che, a parte la testa mancante, sembravano appena pescate: tanto che l’ospite fece di nuovo onore all’invito.

Mancava il vino, essendo il vecchio Gilsi astemio; per compenso c’era il caffè, al quale l’ingegnere mescolò alcune gocce del rum che teneva nel fiaschetto della sua bisaccia: e le sigarette che egli fumò dopo, lo rimisero nello stato di grazia dell’uomo che vede tutto chiaro e buono nell’avvenire.

Adesso era lui che aveva voglia di chiacchierare: cominciata però a raccontare una sua avventura di caccia, vide il vecchio, che s’era messo anche lui a fumare la pipa, alzarsi di scatto e tendersi in ascolto. Si sentiva un fischio lontano, che si avvicinò, guizzò, si spense, rapido come una stella filante.

— Che cos’è? — domandò l’ingegnere. — Un animale?

Il vecchio andò a vuotare la pipa sull’orlo