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Il silenzio, intorno, si empì di gemiti: un odore di catacomba uscì dalla bocca nera della galleria: e per la seconda volta l’ingegnere ebbe un vago senso di paura. Il male dei Gilsi, quella credulità in una fatalità sotterranea, gli scorreva già nel sangue come un contagio: ma subito egli cercò di guarirne; si guardò attorno, andò oltre, tastò le pareti, misurò, calcolò tutto, fin dove arrivava la luce; quella luce del cielo alto, perlato, con strie d’oro e di rame, che pareva a sua volta, sullo sfondo dell’apertura, una miniera favolosa. Il vecchio era rimasto fuori, lontano, estraneo all’affare: ma un pensiero nuovo, anzi una preoccupazione profonda, gli fermava gli occhi, sotto le sopracciglia aggrottate: poiché aveva capito benissimo le allusioni dell’ingegnere, al quale doveva essere piaciuta molto la signorina Gilsi, e quando parlava di crearsi una famiglia, accennava certamente a lei. E anche lui, il vecchio solitario, vedeva la famiglia ricomposta, la casa della miniera di nuovo animata, forse rallegrata da gridi di bimbi.

Lampi. La diffidenza lo riavvolse col suo velo scuro quando l’ingegnere tornò fuori sorridente e soddisfatto, ma invece di esprimere la sua contentezza, domandò se c’era modo di passare la notte lassù.

— Si fa tardi, e il cavallo è stanco.

— Se lei si contenta di pane e cacio.

Deledda, La vigna sul mare. 7