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186 la via del male


I giorni intanto passavano monotoni ed incerti; avvezzo a muoversi, a camminare, a lavorare, Pietro perdeva quasi la nozione del tempo; a momenti gli pareva d’essere in carcere da pochi giorni, a momenti gli pareva d’esser recluso da anni ed anni.

Di notte, nel silenzio lugubre del carcere, rotto soltanto dalla voce sonora del vento e dai gridi acuti delle sentinelle, il prigioniero sentiva uno spasimo nostalgico, ricordando le notti passate accanto al fuoco, nella calda cucina dei padroni. E nel sonno rivedeva Maria, la baciava, spasimava d’amore.

Signore! Era dunque tutto passato, tutto finito davvero? Pietro pensava a Francesco Rosana con un delirio d’odio: pronunziando il nome del rivale digrignava i denti. Accusava Francesco persino della sua presente disgrazia, pensando che se non fosse tornato una notte a Nuoro per rubare il revolver della zia, non avrebbe smarrito l’acciarino e non sarebbe andato poi in cerca di fuoco dai contadini, coi quali l’avevano arrestato.

Una rabbia cupa e concentrata, un rancore profondo, un istinto di ribellione contro il mondo e contro la sorte gli fermentavano in fondo all’anima. E sul terreno vergine di quest’anima sconvolta, le perverse teorie del compagno di carcere radevano come semi di erbe velenose, e germogliavano subito.

— Gli uomini, siamo tutti eguali! — diceva l’Antine, talvolta scherzoso e talvolta serio, — siamo tutti eguali come i figli d’uno stesso padre. Dio è