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Il gran patrimonio di don Piane consisteva in vastissime tancas, delle quali una parte era occupata dal proprio bestiame, parte era affittata e parte infine era data a mezzadria per le seminagioni. Quindi ben poche erano le faccende domestiche, mentre in altri tempi, essendo numerosa la famiglia e straordinario il numero delle persone di servizio, la casa pareva un piccolo inferno senza requie, animata da un viavai indescrivibile e dal forno sempre acceso per la cottura del pane.
Ora, dopo la morte di Carlo ed il ritiro di Silvestra, la casa sembrava caduta in una silenziosa atonia piena di segreti dolori e di misteriose paure, appena svegliato dai gridi delle domestiche, dalle corse e dai giuochi dei cani favoriti e dal muto andirivieni dei gatti.
Di solito Stefano sbrigava i suoi affari in uno studio al pian terreno; e le persone da lui ricevute passavano poi nel salotto da pranzo per salutare e confabulare con don Piane.
Dopo una settimana Maria aveva quasi preso possesso della casa, vincendo la stanchezza, il malessere, il fastidio che quella vita le dava, e spinta dall’irritazione per il fare e disfare insolente delle fantesche. Solo verso sera ella si poteva recare un momentino a casa sua, dove riposava fra le soavi parole del padre, gli arditi consigli della madre e le carezze del gattino, che, salendole sulla spalla, sfregandole