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La luce diventava sempre più tenue e dorata; il vento cessava col cader della sera, e, circondato dal suo fruscìo lieve e monotono, l’ambiente del salotto si rendeva ancor più intimo, più raccolto e soave.
Stefano rialzò le cortine e guardò fuori. Il balcone dava sugli orti, pieni di silenzio e di vaga tristezza; al di là i prati ondulati sfumavano nella soave luminosità del crepuscolo, e gli alberi semispogli si disegnavano rossi e vanescenti sullo sfondo delle lontane montagne. Sopra un’altura rocciosa, fra roveti e macchie, una chiesetta campestre, da quel fondo di cielo cremisino guardava con infinita dolcezza sul piano arato.
Tenendo sempre stretta la cortina entro la bianca, scarna mano, Stefano sentì anche dentro di sè la dolcezza triste e ineffabile delle cose crepuscolari. Dunque i suoi sentimenti, le sue sensazioni rinascevano? Ebbe persino desiderio di aprire il cembalo, che non toccava da tre mesi; un tintinnìo di capre che tornavano dai pascoli, gli ricordava una sinfonia di Meyerbeer,1 nella quale risuona una caratteristica melodia di leoneddas o pifferi sardi. Fu spinta la porta e apparve la bella testa di Serafina avvolta in una benda color di miele.
— C’è il suo compare Arcangelo Porri —
- ↑ Le sedici famose battute dell’Africana.