Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/190


— 182 —

d’amar il suo nido dopo che Stefano l’aveva trasformato, non a quest’ultimo che vi restava sì, ma tediato e senza amore, come uccello in nido di passaggio, non alle serve che vi spadroneggiavano, sì, ma come serve; non a lei infine che non era padrona, che non v’era amata e rispettata, che non ci aveva ancora provato quell’intima possessione, derivata dalla completa felicità che fa amare la casa e regnarvi dolcemente.

La casa pisana non apparteneva a nessuno: forse aspettava nella sposa la nuova padrona, ma ella era tuttora la semplice e modesta regina della vecchia casetta del molino; e il segreto pensiero tormentoso che la seguiva sotto i noci ed i pioppi dell’orto, e nelle brevi ore passate al telaio, nella grigia stanzetta tutta illuminata dal candore della coperta fiorita di rose, era questo:

— Qui forse Stefano mi avrebbe amata di più, come mi amava l’altro.

Più volte, nelle ore più tenere di confidenze amorose, egli stesso le aveva detto che, se l’avesse incontrata la prima volta in un diverso ambiente, o in campagna o in uno dei barocchi salotti del villaggio, o in chiesa o in casa di povera gente, forse non l’avrebbe così completamente ed esclusivamente amata, come l’aveva amata trovandola in quella semplice cornice antica, in quella stanza severa come