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le vicine non s’accorgessero e Stefano non venisse a saperne.
Dopo tutto, le ore più belle della sua giornata, quando il marito andava a caccia o era di malumore, erano per lei le ore passate presso i genitori. Si ritrovava nel suo ambiente; e se nei salotti di casa Arca ella non era precisamente la dama sognata da Stefano, nella vecchia dimora paterna, nella rustica cucina, nel fresco orto ombroso animato dalla vita del molino, nella severa stanza da pranzo e nella stanza del telaio, ritornava ad esser la semplice e sincera creatura che Stefano Arca aveva improvvisamente amata.
Ella scendeva nell’orto, e negli scarsi meandri del ruscello, rivedendo navigar e sparire le larghe foglie verdi del noce e le lunghe foglie bianche dei pioppi, ritrovava la dolce melanconia che dava al suo volto una così soave espressione pensosa: rientrava nella cucina soleggiata, si sedeva davanti al focolare, e mentre donna Maurizia le preparava il caffè o la frollata, ella fissava il verdeggiante sfondo della porta, su cui, quasi in vago quadro, apparivano l’orto, gli alberi, il muro, e il viale giallo che portava al molino. Il vetro della porta aperta rifletteva il quadro con vanescente malìa: là dentro, il verde pareva più intenso, il sole più mite, il cielo più dolce: un sogno di inafferrabile dolcezza.