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gliate, o magari la camicia di percalle rasato, azzurro pallido a pisellini gialli, ma poi pensava amaramente:

— Perchè? Uscire, o non uscire? Perchè uscire? Dove andare?

Era completa, in quei caldi pomeriggi polverosi, la desolazione del villaggio: i noci che alla spietata luce del sole apparivano grigi di polvere, non fremevano più, stanchi e sonnolenti; sonnecchiava l’acqua del ruscello nella sua desolata scarsità; dal confine dell’abitato, il concio, a cui i monelli attaccavano malvagiamente dei fiammiferi accesi, fumava, spandendo su tutto il paese una densa, soffocante e poco amabile fragranza di stoppie e d’immondezze brucianti.

Per narici delicate come quelle di Stefano, in quell’odore abbominevole era condensata tutta l’immonda miseria del paese; sulle cui viuzze il vento lasciava larghi marezzi di paglia e d’altre cose indecifrabili; dalle cui porticine spalancate si scorgevano oscuri e sucidi interni di casette popolate da neri bimbi ignudi, da donnicciuole in iscuffiotto lungo e gonnella cortissima, da gatti spelati e cani rognosi.

In quell’ora era deserta la così detta birreria, sul cui nero banco umido di vino dominava un uomo — dalla grande faccia rossa tagliata da una linea gialla, i baffi, e punteggiata da due margheritine turchine, gli occhi, — vestito di