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zonte, la fragranza amarognola degli alti oleandri fioriti magicamente sul marmoreo alveo del fiume disseccato, le dolci ombre dei muri assiepati, i rossastri fieni delle tancas, l’acqua argentea delle fontane, gli arieti dalle grigie corna, i tori dal bianco viso e le greggie tutte meriggianti fra i lentischi dell’ardente profumo; gli agili puledri che stanchi per corse sfrenate traverso le macchie or sognavano in fiero riposo; era infine tutta la sonnolenza dolce e fatale della natura sarda, un misterioso sogno di nostalgica passione rievocante le voluttuose estasi del patrio oriente.

Nel primo dormiveglia o nei velati intervalli di sonno, Stefano sentiva una profonda felicità: tutta la percezione delle sue fortune, ricchezza, amore, gioventù, forza, bellezza e intelligenza, gli passava nel pensiero, e le sensazioni addormentate provavano una dolcezza ineffabile di sogno: lo stagno della piccola esistenza paesana, torbido nelle ore di realtà, si cambiava in lago di latte dolce. Come in quell’ora erano profonde e soavi le carezze di Maria! Come risuonavano inebbrianti e perfette le sonore melodie del cembalo; come erano buoni gli abitanti del paese, e come questo appariva pittoresco! Si appianava ogni cosa; ogni persona sfilava sorridente e luminosa; tutte le contrarietà si dissolvevano in soavi sfumature. E la vita e l’avvenire erano dolcissimi sogni, orientali fantasie; erano il