Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/178


— 170 —


— Oh, questo è certo!

— Ebbene, lascia fare a me. Domani.

Ma nè il domani nè nei seguenti giorni, egli ebbe il coraggio di scacciar la domestica.

— Dopo tutto sono affari di donne; che c’entro io, corpo del diavolo? — pensava umiliato.

Maria taceva e aspettava.

Dopo le tenerezze dell’altra notte, egli la trascurava ogni giorno di più, passando le ore al piano e suonando uno spartito, arrivatogli da poco, che sembrava ammaliarlo.

Era il Tannhäuser di Wagner. Nel nuovo spartito, nuovo per modo di dire, poichè egli non l’aveva prima nè eseguito nè sentito mai, Stefano ritrovava qualche cosa di profondamente misterioso che lo assorbiva dandogli vaghe rimembranze arcane e intimi piaceri fino allora invano cercati negli scherzi di Brull, il cui riso argentino anzi talvolta lo infastidiva, o negli studi sinfonici di Schumann, che spesso lo lasciavano indifferente.

Nelle nuove melodie egli ritrovava qualche cosa di se stesso; sebbene in fondo al suo piccolo paese egli non sentisse dell’ozio che le noje, senza provarne, come Tannhäuser nelle profondità del Venusberg, i corrosivi piaceri, aveva però occulto e potente un desiderio di vita, di lotta, e di lavoro. E nelle note della musica wagneriana fra gli interludi orchestrali, egli metteva tutta l’anima sua: certe voci pro-