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panno nero lucente, attraversò la corsìa rossa e socchiuse gli sportelli del balcone.
Una tenue e dolce penombra si diffuse subito per la camera; al disopra del rosso panneggio delle tende, su cui si contorceva una testa di drago color d’oro, tremò, stendendosi sul grigio soffitto, un ventaglio di luce a raggi bianchi, la cui striscia centrale s’avanzava soavemente fin sopra il letto di Stefano. E don Piane, tornando indietro e sedutosi su un’antica seggiola dall’alta spalliera a punta, s’affissò in quella striscia di luce e s’abbandonò al suo tormentoso pensiero.
Già, quando egli si fissava una cosa in mente, fosse ragionevole o no, fosse per improvvisa o lenta intuizione, nessuno avrebbe potuto convincerlo del contrario.
Era don Piane Arca una singolare figura di vecchio oltre l’ottantina; indossava un costume fra il paesano ed il signorile, con giubba e pantaloni di panno nero finissimo, corpetto accollato di velluto color bronzo‐verdastro, adorno di una doppia fila di bottoncini d’argento brunito; portava la berretta sarda, ma piccola e corta come si usa in certi villaggi del Nuorese. Gli occhietti e la bocca sdentata gli sfuggivano entro le profonde rughe del viso incartapecorito e raso, privo di sopracciglia e circondato da lunghi riccioli serpentini di capelli d’un bianco metallico; e le piccole mani nodose, candide,