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cia, nel paziente prosciutto: e adesso le fette si staccano diafane e larghe. Il maestro le guarda contro luce, come lembi di stoffa preziosa: il grasso gli sembra velluto bianco, il magro damasco color mogano.

Disposta una grande rosa di queste fette su un vassoio rotondo, egli tagliò ancora dalla parte del grasso, e su queste disgraziate fette, gettate alla rinfusa sull’asse per il battuto, il coltello infierì rumorosamente fino a ridurle in poltiglia. La pentola già calda fu scostata sull’orlo del fornello, per dar posto alla padellina nera con dentro il lardo battuto, al quale erano dati per compagni di consolazione pezzetti di burro, di cipolla e d’aglio: e tutto cominciò a friggere, a lamentarsi, prima piano, poi forte, finchè la conserva del pomodoro non vi mischiò il suo sangue denso e parve mutare il dolore in gioia.

Rimessa l’acqua a bollire, il maestro tirò giù l’asse grande per la pasta, pulita e quasi vergine nella sua nudità di legno bianco; e ricordando i gesti delle donne quando eseguiscono questa faccenda, vi versò una piccola montagna di farina in mezzo alla quale fece col dito un buco come il cratere di un vulcano. Un vulcano parve davvero, la piccola montagna, quando egli versò nel buco l’acqua bollente: si sollevò il fumo, il cumulo franò, ed egli vi immerse le mani come a volerlo sostenere e ricostruire.