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gere; tanto era alta e ben costrutta: una giovine Giunone incoronata di treccie gialle.

Il maestro la seguì, col suo nuovo peso.

— Dunque tu ti chiami Ola: io lo sapevo da un pezzo. Ola....

Il dolce nome gli si scioglieva in bocca come un frutto di miele.

Ola si schermiva lievemente, ma si lasciava trasportare volentieri, senza cessare di guardarlo in viso con i suoi occhi mutevoli fatti di sole e di ombra: sguardo di studio, più che altro, che osservava le rughe di quel viso così vicino eppure così ignoto, i punti neri del naso, i capelli che si accompagnavano fitti uno bianco uno nero come il giorno e la notte; e penetrava nella bocca cercando di spiegarsi il mistero dei denti d’oro che vi si nascondevano in fondo come gli anelli della mamma nel cassettone. Ella taceva però, e alle molte domande di lui rispose infine evasivamente:

— Papà mi porta oggi un fucile.

— Un fucile? Ma i fucili sono per i maschi. Io invece sai che cosa ti ho portato? Una bella bambola.

— Le bambole ce le ho, — disse lei, accogliendo la notizia con indifferenza: poi puntò il ditino sulla spilla della cravatta di lui, già prima bene studiata, e gli occhi le brillarono di bramosia.