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— Mamma, portami l’uccello.
Ella guarda verso la finestra. È ancora giorno, il crudo eppure roseolilla giorno di febbraio, che vuol morire e non muore, che è triste eppure ha una promessa di gioia.
— Sì, cocco mio bello, domani ti porterò l’uccello.
I bambini tacciono, quasi spaventati da questa promessa meravigliosa più di quella del crepuscolo di febbraio. Ma Lello si lamenta, anzi piange; e quel pianto senza forza, quasi senza voce, sgretola il cuore del padre.
— Maria, prova ad andare dalla signora Carlotta. Se no ci vado io e le fracasso i vetri delle finestre.
La sua voce è digrignante: par di sentire i vetri rompersi. Che soddisfazione per i bambini; che gioia di vendetta; e che speranza di vedere finalmente l’uccello!
La madre si mise le scarpette belle, quelle che aveva da quando ancora andava a ballare; si avvolse la testa nella sciarpa azzurra e uscì. Sapeva che il suo viaggio era perfettamente inutile; che la signora Carlotta non le avrebbe aperto, anche perchè a quell’ora l’uccello doveva dormire: eppure arrivò fino alla porta della vecchia, e più in là ancora, fino all’angolo della strada grande, dove quell’usuraia della sora Gilda, l’abbacchiara, vendeva, nel suo buco puzzolente come un pollaio, galline e cacciagione.