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di vivere, li riaccese come freddi candelini spenti. Egli agitava le mani con le dita aperte, chiudeva gli occhi per frenarne il fulgore, stringeva le labbra e scuoteva la testa con una meraviglia che rasentava lo spavento.

— Che cosa ho visto io! Che cosa ho visto io!

Ma non voleva, non riusciva a dirlo.

— Oh, abbasso le mani! Se continuate a pizzicarmi così, non ve lo dico davvero.

Gli altri insistono con violenza.

— Ho veduto un uccello che parla, ecco!

Sorpresa di tutti. Domande sopra domande. È un pappagallo? Un corvo? Una gazza? Niente, niente. È un uccello che ha gli occhi celesti, le ali celesti, la punta del becco celeste. Sta sulle scale della vecchia e stramba signora Carlotta, e saluta chi entra.

— Ma va, sarà un uccello meccanico.

— Proprio! Va a toccarlo e senti che beccate. Mi ha detto: buon giorno; poi ha chiamato il cane e lo ha deriso: gli ha detto: Lino, somaro! Lino accorre sempre che si sente chiamare dall’uccello, perchè sa che allora c’è gente. Com’è la sua voce? Come quella di nostro cugino Romoletto.

Romoletto era un sordomuto, educato da certi preti.

I bambini si misero ad imitarne poco cristianamente la voce inumana, correndo fino alla porta chiusa della signora Carlotta, davanti alla