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Si stese sull’orlo dello spalto, supino, e chiuse gli occhi. Ed anche l’infinito occhio azzurro del cielo parve chiudersi con desiderio di morte. Le nuvole lo coprirono: dai nascondigli delle rovine sbucarono i venti, spazzando via le cornacchie come foglie nere. Il freddo incrinò l’incanto della primavera: e il lamento delle cose, giù dall’acqua del fiume fino ai cespugli che coronavano le rovine, parve il pianto per la morte di Aprile.

La madre, non vedendolo tornare a casa, andò a cercarlo. L’istinto la guidava; sentiva come la traccia dell’odore di lui lungo i sentieri del bosco e tra le felci vecchie e nuove calpestate dal suo passaggio. Il vento la respingeva, la gelava tutta; ma il suo dolore e il suo rimorso erano più forti della bufera; e vinsero le pietre delle rovine, e il terrore delle tenebre che le trasformavano in mostri. Finchè giunse allo spalto dove Aprile, già freddo, bianco e duro come una statua, agonizzava. La madre si strappò le vesti per coprirlo, tentò di scaldarlo col suo alito, se lo mise in grembo come il Cristo deposto: e non piangeva, non parlava. I venti urlavano per lei, e all’alba, quando tutto si placò, le cornacchie