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Nella notte chiara di luna, mentre mio padre innaffia il giardinetto tutto odoroso come un solo fiore, io e i ragazzi andiamo fino al margine della valle, sul posto dove sono stata con lui. Billa, che il chiaro di luna trasforma in una zingara mora, si arrampica su un querciuolo, donde manda il suo saluto di cuculo al padre rimasto a casa: Fausto invece si sdraia silenzioso accanto a me, sul fieno ancora piegato dell’altra sera.
Il dolore mi romba dentro come un vulcano, ma la presenza di Fausto m’impedisce di rotolare sulla terra e urlare. Fausto s’è fatto serio, in questi giorni: s’è anche allungato come per il desiderio di farsi presto uomo e vendicarmi: non parla mai del fatto, ma ci pensa continuamente; i suoi occhi sono scuri; spesso egli aggrotta le ciglia e stringe i denti sporgendo la mascella: allora ha un’aria buffa che fa ridere, mentre io sento che dentro di lui soffia un vento di tragedia.
D’un tratto esclama, parlando fra sè:
— Ma ne ho proprio piacere! — Poi balza in piedi e scuote con furore l’albero sul quale Billa adesso imita il lamento della civetta.
— Smettila, scimmia, se no sradico la pianta — urla con una voce d’uomo. Il verde argenteo dei rami ha un bagliore livido: Billa ride e