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LA FORTUNA
Tutti i giorni, quando, dopo l’ebbrezza del lavoro, viene la stanchezza fisica e la disperata visione del poco o nulla che si è fatto, e che nel crearlo, invece, ci sembrava l’opera stessa di una divinità, per salvarmi da questa sofferenza, che è ancora orgoglio, e ritrovare nell’umiltà quotidiana l’equilibrio umano, il ritorno alle sfere dove la legge del dovere è per tutti eguale, me ne vado a camminare lungo le strade solcate dal passo dei veri lavoratori; le strade dove si aprono i cancelli di rami dei campi e delle vigne dei contadini. Qui la vita mostra il suo viso rude: non più gli sciami di libellule delle donne dagli occhi vuoti, ma il carro pesante ed i giovenchi con gli occhi giovani e dolci eppure circondati di rughe come quelli dei filosofi poveri; qui non la distesa celeste della marina, ma il lavatoio livido, intorno al quale le lavandaie paludose, mentre battono i panni come per punirli di essere sporchi, e li purificano, o di albero in albero stendono le corde lunghe e bianche come